I padroni del mare

Il Trattato AUKUS, acronimo dei tre paesi coinvolti (Australia, UK e USA), ha fatto molto parlare di sé per l’impatto che avrà sugli equilibri strategici nell’area indopacifica. Rinunciando alla partnership con la Francia ed estromettendo quindi l’Europa continentale, i più importanti esponenti del mondo anglosassone si sono compattati intorno al comune obiettivo di fronteggiare il potere crescente della marina militare cinese. L’accordo ruota intorno alla necessità da parte dell’Australia di sviluppare, dal 2030, una flotta sottomarina equipaggiata con propulsori a fissione nucleare, al posto dei dodici convenzionali che gli accordi precedenti avevano previsto. Questo veicolo militare è tra i più costosi che esistano, ma certamente anche uno dei più efficaci in qualsiasi possibile scenario bellico futuro e, al momento, è posseduto da appena sei nazioni: USA (68), Russia (29), Cina (12), UK (11), Francia (8) e India (1). Questi numeri riguardano esclusivamente i sottomarini nucleari d’attacco e quelli lanciamissili, ovverosia dotati di testate a fusione nucleare miniaturizzate e alloggiate in missili balistici o da crociera. L’Australia non si doterà di unità lanciamissili, perché ha sottoscritto il Trattato di non proliferazione nucleare del 1968. Tuttavia, con o senza armi di quel genere, i sottomarini nucleari restano lo strumento fondamentale dell’odierna talassocrazia.

Al momento della loro prima apparizione, costituita dalla serie tedesca U-Boot Tipo XXI del 1944 (i sommergibili precedenti non operavano stabilmente in immersione), i sottomarini si sono rivelati l’unità navale più preziosa di cui le flotte disponessero. Da allora, fatta eccezione per le grandi corazzate portaerei, nessun’altra imbarcazione ha rivestito un ruolo altrettanto decisivo. I sottomarini convenzionali hanno però dei grossi limiti di autonomia e stazza, dovuti all’enorme energia necessaria a mantenere lungamente attivi gli impianti di supporto vitale, i sistemi ausiliari e spostare su lunghe distanze un grande corpo immerso, visto che l’acqua è mille volte più densa dell’aria. Il 21 gennaio 1954, la US Navy varò il primo sottomarino nucleare della storia: l’USS Nautilus (SSN-571). Questa pietra miliare dell’industria bellica è oggi visitabile al Submarine Force Museum di Groton, in Connecticut, presso quegli stessi cantieri della General Electric che gli dettero i natali. Prima che i sovietici ne realizzassero la controparte K-3 Leninskij Komsomol, nell’agosto del 1957, il Nautilus garantì la supremazia navale statunitense. L’energia nucleare alimentava ininterrottamente i suoi motori elettrici, rendendolo più veloce degli altri sottomarini, pur essendo nettamente più grande. Poteva colpire ovunque con rapidità, operando per primo anche sotto la calotta polare artica. In quel periodo fu superata, con non pochi incidenti di percorso, la grande difficoltà tecnica data dall’alloggiamento in uno spazio così ridotto del reattore nucleare in sé e della schermatura necessaria a proteggere l’equipaggio dalle sue radiazioni. Per raffreddare un reattore così piccolo è necessario pompare costantemente acqua fredda sul nocciolo, un processo rumoroso che ha comportato la necessità di implementare rivestimenti fonoassorbenti per evitare di rendere il vascello troppo facilmente individuabile.

Durante la Guerra Fredda, furono prodotti moltissimi sottomarini nucleari, pesanti migliaia di tonnellate. Nessuno di essi è mai riuscito a restare efficiente per più di tre decadi, ragion per cui la stragrande maggioranza di quelli creati dall’URSS arrugginisce oggi sui fondali del mare di Kara, inquinandoli con circa sei volte e mezzo le radiazioni che furono rilasciate sul territorio di Hiroshima. Le loro tecnologie di occultamento li rendono così scarsamente rilevabili che è stato necessario stabilire specifici accordi internazionali sul loro traffico sottomarino al fine di evitare collisioni.

L’orizzonte tecnologico della navigazione subacquea militare è costituito dai sottomarini nucleari senza equipaggio, come il russo Poseidon. Si tratta del progetto in avanzato stato di sviluppo, presso i laboratori Rubin di San Pietroburgo, per un veicolo relativamente piccolo, circa venti metri di lunghezza per due di diametro, dotato di ampia autonomia di movimento, eccellenti sistemi di annullamento della propria traccia acustica, un sistema computerizzato di analisi ed evitazione delle minacce e di propulsori capaci di raggiungere una velocità considerevole grazie alla supercavitazione, il processo di vaporizzazione dell’acqua intorno a un oggetto che viene così avvolto da una bolla di gas che diminuisce drasticamente l’attrito cui lo stesso è sottoposto. La testata al cobalto-59 da cento megatoni non mira a distruggere una zona specifica, ma a generare uno tsunami capace di distruggere un’area costiera vastissima, inquinando drammaticamente un vasto settore dell’oceano con la sostanza radioattiva che deriva dalla detonazione (cobalto-60) in modo tale da annientarne la fauna ittica, cancellando non solo mezzi e strutture dell’industria che sulla stessa di fonda, ma la sua stessa possibilità di esistere. I merito ai danni catastrofici all’ecosistema, essi sono con ogni evidenza al di là di ogni immaginabile accettazione.

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