Piero Gobetti. Giovanni Spadolini e la sua eredità ideale

In febbraio ricorre il centenario della fondazione de “La Rivoluzione liberale“, la seconda rivista di cultura politica di Piero Gobetti, uscita nel 1922 e terminata nel 1925.

Giampaolo Berni Ferretti, consigliere del Municipio1 di Milano, ha dedicato a Gobetti il suo libro Milano 21 Punto Zero presentato da Gabriele Albertini e da Mariastella Gelmini lo scorso anno: lo ringraziamo per averci segnalato il dotto riferimento a Spadolini che trovate qui sotto.

Giovanni Spadolini ha pubblicato questo saggio su «La Voce Repubblicana» del 9-10 giugno 1981

«Sarebbe stato un grandissimo editore se ne avesse avuto il tempo»: così ci disse di Piero Gobetti, oltre trent’anni fa, Benedetto Croce, temperando, con una punta di commozione, le limitazioni e le ingiustizie di non pochi suoi fedelissimi, verso l’autore del Risorgimento senza eroi, idealista irregolare e crociano con una punta di dissacrazione. «Editore in quanto scopritore di talenti»: aggiungeva Croce, nel ricordo, venato di malinconia, del ragazzo inquieto e cercante che all’uscita dal liceo già gli aveva scritto per invitarlo a collaborare a «Energie nuove», con una nota di orgoglio intellettuale in nulla frenata dalla deferenza.

«Penso un editore come un creatore»: confiderà Gobetti in un appunto «per se stesso» che il devoto Franco Antonicelli pubblicherà postumo, in quella splendida brochure di Scheiwiller, L’editore ideale. «Creatore dal nulla se egli è riuscito a dominare il problema fondamentale di qualunque industria: il giro degli affari che garantisce la moltiplicazione infinita di una sia pur piccola quantità di circolante».

Piero Gobetti. Rivoluzione liberale

La casa editrice è, per Gobetti, inseparabile dalla rivista. Quando apre la serie della «Rivoluzione liberale», neanche ventunenne, nel febbraio 1922, parla ancora di «edizioni delle Energie nuove», distingue fra periodico e casa editrice. Ma il 21 maggio 1922, compare sulla rivista l’annuncio delle edizioni de «La Rivoluzione liberale». E non esclusivamente politiche, non rigorosamente monografiche, o monosettoriali. I primi due titoli riflettono il sapiente e accorto eclettismo dell’autore, associano il suo Casorati (col libro illustrato sul pittore che uscirà di lì a poco) alla polemica sul socialismo in crisi, testimoniata dal «collaborazionismo» di Ubaldo Formentini: un termine di moda allora, che assumerà significati così diversi, e così contradditori, e polivalenti, nel corso del secolo.

Il secondo è in realtà un libro commissionato. L’autore verserà mille lire per stamparlo: in cambio di mille copie, costo totale dell’opera 1.250 lire (rischio limitato per l’editore). Il sottile filo artigianale della casa editrice, che solo più tardi porterà il nome di Gobetti, si riflette in tutti i primi passi di quel 1922: qualche libro immaginato o sognato o sperato in mezzo ai sinistri bagliori della «controrivoluzione» delle camicie nere che il direttore di «Rivoluzione liberale» sente avanzare, alla quale contrappone invano il rigore della propria ideologia e la passione lucida della propria intellettuale protesta.

L’atto costitutivo della società editrice va collocato intorno alla metà del ’22 ed è conservato al Centro Gobetti di Torino, ma non è datato. Si tratta di «una società per le pubblicazioni di libri, giornali, riviste, e quant’altro ha attinenza con l’industria editoriale». Si chiama «Arnaldo Pittavino & C.»: in omaggio al proprietario della Tipografia sociale di Pinerolo, stampatore dei primi numeri della rivista, con 2.000 copie scarse di tiratura.

Quindicimila lire di capitale: ripartite in quote di 6.000 ciascuno per Pittavino e per Casorati, più una di 3.000 per Gobetti, che compenserà la minore rilevanza della somma con l’apporto delle proprie energie intellettuali. Compito specifico: l’organizzazione culturale a Torino (a Pinerolo restava la direzione amministrativa).

Le prime persecuzioni fasciste

La diarchia non durò più di alcuni mesi. Le prime persecuzioni fasciste, agli inizi del ’23, spaventavano il «socio» Pittavino (che già aveva tagliato da Pinerolo l’articolo di Gobetti, relativo alla marcia su Roma: con reazione «furibonda» dell’interessato), lo inducono ad abbandonare il campo. La società è sciolta consensualmente. Qualche rarissimo libro è già in circolazione con quella misteriosa testata che tale resterà per una generazione: per esempio l’Io credo di Prezzolini.

Il libretto di Gobetti su La filosofia politica di Vittorio Alfieri (rielaborazione, senza tante modifiche, della propria tesi di laurea con Gioele Solari) sta per uscire dai torchi quando la testata «Piero Gobetti editore» è già nata: l’editore che fa tutto, l’inventore di libri, il correttore di bozze, l’agente di vendita, lo spedizioniere, il pubblicitario. Ma appena in tempo per sovrapporre, nelle poche centinaia di copie stampare, la nuova etichetta alla vecchia, «Pittavino & C.».

Editore e autore si identificano: secondo il filone della «Voce», al quale Gobetti in quegli anni esplicitamente si riallaccia. Poche case editrici conserveranno l’«autobiografismo» scattante e inesauribile di quella gobettiana: nelle stesse antinomie sollecitate e non risolte, nel culto di apporti diversi e talvolta contraddittori, nell’esplorazione rabdomantica dei talenti da valorizzare, nell’amore della scoperta (Montale, lanciato per la prima volta con gli Ossi di seppia) alternando a un certo gusto per la codificazione dei valori democratici già affermati (il libro di Nitti su La Pace e l’opera di bilancio dello statista lucano entrambe con la tiratura record di 10.000 copie, gli scritti di Sturzo o di Salvemini, l’invito ad Albertini, non raccolto, per scrivere i ricordi del direttore del «Corriere della Sera»).

Cento titoli

Sono cento titoli, e poco più, usciti nel corso di tre anni: e a parte qualche malinconico prolungamento delle edizioni del «Baretti», fino al 1928. Cento titoli di cui andrebbe ricostruita, uno a uno, la storia: come il libro è nato, quale tiratura ha avuto, quale successo: chi scrive ricorda, ragazzo, la libreria Giorni di via Martelli a Firenze, dove giacevano non piccoli depositi di volumi gobettiani, sfuggiti alle persecuzioni o alle interdizioni fasciste attraverso una storia che ho già raccontato in altre sede e che fu complice del mio primo lontano incontro – fra ’38 e ’40 – col disarmato apostolo laico della ragione.

È ancora vero, e calzante, l’«autoritratto» scoperto, postumo, da Antonicelli: «Ho in mente una mia figura ideale di editore. Mi ci consolo, la sera dei giorni più tumultuosi, 5, 6 per ogni settimana, dopo aver scritto 10 lettere o 20 cartoline, rivedute le terze bozze del libro di Tilgher o di Nitti, preparati gli annunci editoriali per il libraio, la circolare per il pubblico, le inserzioni per le riviste, litigato col proto che mi ha messo un errore nuovo dopo 3 correzioni, mandato via rassegnato dopo 40 minuti di discussione il tipografo che chiedeva un aumento di 10 lire per foglio, senza concederglielo; aiutato il facchino a scaricare le casse di libri arrivate troppo tardi quando ci sono solo più io ad aspettarlo, schiodata io stesso la prima cassa per vedere i primi esemplari e soffrire solo io del foglio che è sbiancato in una copia, e consolarmi che tutto il resto va bene, che né il legatore né il macchinista non han fatto nessuna gherminella […]; arrivato con 30 soli secondi di ritardo alla stazione dove tra un treno e l’altro devo combinare un contratto con un editore straniero, ricevute 20 telefonate, 10 facce nuove che vengono con le proposte più bislacche e bisogna sentire, per vedere l’idea che vi portano, scrutarle, scegliere il giovane da aiutare e il presuntuoso da mettere subito alla porta […].

Quattordici ore di lavoro al giorno tra tipografia, cartiera, corrispondenza, libreria e biblioteca (perché l’editore dev’essere fondamentalmente uomo di biblioteca e di tipografia, artista e commerciante) non sono troppe anche per il mio editore ideale. L’importante è ch’egli non debba aver la condanna del nostro pauperismo, non debba vivere di ripieghi tra le persecuzioni del prefetto, il ricatto della polizia attraverso il commercio».

Guida bibliografica degli scritti su Piero Gobetti

Uno strumento fondamentale in questa direzione è rappresentato dalla Guida bibliografica degli scritti su Piero Gobetti, in cui il Centro Gobetti ha prodigato un intelligente sforzo, coordinato da Giancarlo Bergami, con prefazione di Bobbio.

Sono quasi seicento pagine, di esemplare scrupolo filologico, che segnano la fortuna e la sfortuna di Gobetti, editore e autore, dal 1918 (un primo giudizio di Salvemini sul ragazzo diciassettenne, una prima aspra riserva di Togliatti poi corretta anche troppo alcuni anni più tardi) all’intero 1975. Quasi tremila schede, significativamente distribuite nel tempo, come rileva Bobbio nella prefazione, secondo un diagramma che comprende quattro periodi di analoga lunghezza, il primo di circa dieci anni, e gli altri tre di circa quindici. Novecentoquarantatre schede nel decennio 1918-1929 corrispondente agli anni della vita di Gobetti e all’eco della sua opera che continua oltre la morte (con l’edizione patetica degli scritti editi e inediti promossa, presso le edizioni del Baretti, da Santino Caramella: non dimentichiamo che anche il Risorgimento senza eroi uscì postumo, che nel ’22 egli pensava di scrivere tutt’altra opera, La filosofia del liberalismo nel Risorgimento italiano).

Centoventi schede sole nel periodo 1930-1944: il silenzio del fascismo rotto solo dalle riviste antifasciste, come «Giustizia e Libertà», e da qualche balenio di fascismo irregolare ed ereticale, Garrone, per esempio. Quattrocentoventicinque schede nel periodo 1945-1959: il nome di Gobetti che non riesce a rompere, nonostante gli omaggi ufficiali e talvolta potenti, il muro dei grandi partiti.

Finalmente 1.393 schede nell’arco che dal 1960 va al 1975: allorché Einaudi affronta l’opera completa e il Centro Gobetti promuove una serie di iniziative, e il ritorno a Gobetti caratterizza interi settori della vita culturale e civile italiana, e tutte le sue riviste vengono ristampate in anastatica, e si riscopre il gusto del dissenso, dell’eresia, della protesta.

Il «Mondo» di Amendola – lo ricorda Bobbio – aveva dato di Gobetti nel marzo 1923 un giudizio in qualche modo definitivo: «è una forza morale». Sessant’anni dopo non sapremo aggiungere nulla di meglio o di diverso proprio mentre tanti punti del programma gobettiano appaiono più inattuali che mai.

Giovanni Spadolini

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