— di Alfredo Tocchi —
No, non è perché mi manca il coraggio. E neppure per egoismo. Ovvio, vorrei separarmi da lui il più tardi possibile. Anche se non è facile prendersi cura di un malato terminale che vuole uscire di notte. Non cammina più. Quando lo prendo in braccio, ringhia. Gli faccio male, almeno spero che sia così. O forse è arrabbiato con me per ciò che non è stato, per le tante volte che l’ho costretto a dormicchiare per ore sui miei piedi in studio, per le notti a scrivere i miei sette romanzi, per gli otto traslochi, per la separazione da mia figlia Celeste, che con me lo aveva visto crescere. Non credo in Dio, nella resurrezione, detesto chi si rivolge ai morti come se fossero vivi e ai vivi come se fossero idioti. So di non sapere e la cosa più inconoscibile è certamente il significato della vita. Se non ha significato, se non vale nulla, un giorno in più o un giorno in meno che differenza può fare? Ma io credo nella sacralità della vita, nonostante tutto, e per questo non la voglio togliere. “Ha più o meno due settimane di vita”, mi ha detto il veterinario, “dimmi tu quando ti sembra che soffra troppo”. Io quel troppo non lo so giudicare. We-go è sempre stato un cane impavido, pronto a tenere testa a cani molto più grandi di lui. Una mattina ho attaccato un Terranova da 70 Kg, lui ne pesa poco più di 7. Per questo gli voglio bene: mi somiglia! Non ho mai pensato che fosse un figlio, un amico o un essere umano. È il mio cane, mi ha reso felice. “Quella necessaria presenza che per il cane è l’uomo e per l’uomo è il cane, non li tradiva mai, né l’uno né l’altro; e per quanto diversi da tutti gli uomini e cani del mondo, potevano dirsi, come uomo e cane, felici” (Italo Calvino Il barone rampante).
Tra una settimana non ci sarà più. Non ci sarà più, perché la morte è eterna, non la vita. Soffrirò, lo cercherò sotto la scrivania, ricorderò di noi due, inseparabili in quei 14 anni che sono stati la sua breve vita e una parte importante della mia. Siamo mortali, “Tout casse, tout passe, tout lasse, il n’est rien, et tout se remplace”. “Ciò che conta, per gli artisti, è lasciare una traccia del proprio passaggio, l’impronta della propria mano nella caverna. Ci ho provato con tutto me stesso, “ho preso il toro per la corna” e combattuto come un peso massimo, proprio come suggerì Hank Bukowski nella meravigliosa L’amore è un cane che viene dall’inferno. Non è stato sufficiente, We-go non sarà mai Bauschan o Charley proprio come io non sono Thomas Mann o John Steinbeck. Ma tutto questo per un cane non ha importanza, è l’uomo l’eterno insoddisfatto della creazione, quello incapace di una felicità naturale, istintiva. Per un cane, non esiste miglior epitaffio che quello che ho scelto per me: “Passò naturalmente come il vento e il giorno, portando via con sé l’anima che lo aveva reso diverso”.