I criteri ESG: per un’economia sempre più sostenibile, in attesa di un regolamento europeo

Negli ultimi tempi il concetto di “sostenibilità” ha subito una rapida evoluzione: se negli anni ’70 era limitato al (solo) piano etico, oggi si assiste ad un mutamento che ha portato a connotarlo in termini tecnico-giuridici. È quello che accade coi criteri ESG, individuati con un acronimo che richiama le tre parole inglesi Environmental, Social e Governance. I criteri ESG sono utilizzati per valutare le scelte economiche e gestionali degli operatori economici, per verificare come queste impattino sulla sostenibilità, intesa nel senso più ampio. Il perimetro in cui ci si muove è quello della finanza sostenibile, per uno sviluppo green dell’imprenditoria del futuro.

Inizialmente il sistema dei criteri ESG si fondava su codici di autoregolamentazione cui potevano facoltativamente aderire le aziende ma, proprio in funzione di questa evoluzione, oggi l’Unione europea – in esecuzione del Green Deal – intende rendere questi principi standardizzati e non più coniugabili solo su base volontaria.

Nella pratica, quindi, tutti gli operatori economici dovranno dichiarare se e quali criteri ESG intendono perseguire, dandone evidenza; chi, invece, dovesse decidere di non conformarsi a questi principi, dovrà dichiarare in che modo le proprie scelte di investimento non andranno comunque ad avere alcun impatto negativo sulla sostenibilità ambientale.

Come già detto, i criteri ESG si articolano in tre macrocategorie: la categoria ambientale, quella sociale e, infine, quella attinente alla responsabilità della governance societaria. Entriamo un po’ più nel dettaglio.

Il parametro ambientale si inserisce nel più ampio contesto della lotta al cambiamento climatico, una tematica (purtroppo) centrale negli ultimi anni: è assolutamente necessario che l’imprenditoria agisca responsabilmente nei confronti del nostro Pianeta ed investa per affrontare la transizione ecologica sin qui più decantata che effettivamente realizzata. Tra i vari parametri si considerano, ad esempio, la gestione delle risorse vitali, il rispetto della biodiversità e il contenimento delle emissioni di CO2.

I criteri sociali, invece, riguardano le politiche aziendali ad impatto sociale. Ci si riferisce, nello specifico, ai diritti civili e lavorativi promossi da un’impresa, al mantenimento di uno standard lavorativo adeguato e, più in generale, al rifiuto di ogni forma di discriminazione.

L’ultimo parametro individuato dai criteri ESG è quello della governance aziendale. Sotto la lente, dunque, la leadership aziendale, la retribuzione dei dirigenti, i controlli interni, i diritti degli azionisti e così via.

Ma c’è un’altra faccia della medaglia: i criteri ESG, oltre alla maggiore consapevolezza sulla sostenibilità aziendale, portano con sé anche alcuni problemi che, ad oggi, sembrano rimanere senza soluzione.

In primo luogo, è ancora da valutare se ci sia o meno un conflitto tra il perseguimento degli obiettivi ESG e il perseguimento dell’obiettivo primario delle società di capitali, quello della creazione di valore per gli azionisti. Nel decennale dibattito che vede contrapporsi l’interesse sociale da una parte e quello proprio degli azionisti dall’altra, qual è il ruolo da attribuire al tema della sostenibilità? Gli amministratori di una S.p.A. sono semplicemente legittimati o addirittura tenuti a perseguire gli obiettivi ESG anche se questi potrebbero – astrattamente – inficiare lo scopo classico della massimizzazione del profitto? Potrebbe esserci una terza via, quella rappresentata dalla CSR, la “corporate social responsability”. La CSR tutela anche gli interessi di soggetti terzi rispetto al rapporto societario, i cosiddetti stakeholder: i dipendenti, coloro che collaborano con tutto l’indotto, il territorio e gli abitanti che vivono nelle comunità interessate dalla presenza dell’azienda.

Un’altra questione riguarda la tassonomia degli investimenti sostenibili. Va assolutamente scongiurato il pericolo del “greenwashing”, ovvero la collocazione sul mercato di prodotti che si definiscono sostenibili ma che, in realtà, sono caratterizzati da un elevato grado di opacità. In questo senso sono necessari dati qualificati, coerenti, comparabili, omogenei. Un vero e proprio standard di trasparenza, insomma, che può essere raggiunto solo grazie ad un intervento regolatore.

Dall’applicazione in concreto dei criteri ESG, poi, sorge un ulteriore questo: è possibile istituire una gerarchia tra di essi? Il concetto di sostenibilità è, per definizione, un semplice framework: al suo interno gli amministratori di una S.p.A. o i gestori di un portafoglio sono liberi di muoversi, anteponendo alcuni obiettivi ad altri. Ma come si individuano i criteri di controllo della discrezionalità degli amministratori?

Quello dei criteri ESG è certamente un tema in crescita esponenziale: non resta che attendere un regolamento europeo, che potrebbe dare una risposta alle questioni ancora irrisolte, e che sicuramente darà una decisa accelerazione alla rivoluzione, ovviamente ecosostenibile, anche nel mondo degli investimenti.

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