Un grande occhio aperto nel cielo

A Natale, NASA, ESA e CSA ci hanno regalato il decollo di un sogno astrofisico impacchettato in un vettore Arianne 5.

In seguito al successo di Hubble, lanciato nel 1990, fu presto proposto un telescopio di dimensioni tali da risultare pressoché fantascientifico per l’epoca. Non doveva essere un telescopio tradizionale, ma uno strumento capace di captare gli infrarossi, una sezione dello spettro luminoso che le nebulose e gli addensamenti del mezzo interstellare non bloccano. Il problema di tali telescopi è che devono essere molto grandi per percepire nitidamente i segnali provenienti da fonti estremamente distanti, inoltre devono mantenere temperature bassissime e trovarsi al di fuori dell’atmosfera, la quale assorbe buona parte di queste radiazioni. Lo specchio primario di Hubble ha un diametro di 2,4 metri, quello proposto avrebbe dovuto possederne uno grande più del doppio. Nei due decenni successivi, si susseguirono varie proposte per realizzare questo gigante del cielo. Per alloggiarlo in un normale vettore, era anzitutto necessario renderlo interamente pieghevole, come un colossale origami.

Il James Webb Space Telescope possiede uno specchio primario di sei metri e mezzo, composto da 18 elementi esagonali per un’area complessiva di 27 metri quadrati. Ogni esagono ha una leggera e sottile base di berillio laminata d’oro, perché il prezioso metallo permette di catturare meglio gli infrarossi. L’intero complesso specchiante principale pesa meno dello specchio primario monoblocco di Hubble. Questo bisonte dal peso di una piuma riflette la luce su un più piccolo specchio secondario rotondo, con un diametro di 74 centimetri, posto dinnanzi all’apparato sensorio (nel quale, a dirla tutta, rimbalza sugli altri due piccoli specchi del sottosistema ottico). Gli strumenti che incontrerà questo fascio di luce riflessa e concentrata sono quattro e, nell’insieme, riusciranno ad analizzare, oltre all’infrarosso, una certa quantità di luce visibile e lo spettro della radiazione elettromagnetica, determinato da tre spettrometri diversi.

Il suddetto osservatorio è collegato con un ponte a uno scudo termico romboidale ancora più ampio (21,1 per 14,6 metri), composto da cinque strati sovrapposti che si frapporranno tra esso e il Sole, nonché da un flap solare che dovrà stabilizzare la rotta. Queste pellicole di Kapton e alluminio sono più sottili di un capello e verranno spedite nello spazio ripiegate su se stesse dodici volte. Dovranno poi dispiegarsi in modo tale da essere perfettamente lisce, grazie a dei tiranti, così da non aderire le une alle altre e restare divise da piccoli ponti angolari. Malgrado lo scudo, una sezione dei sensori dovrà utilizzare un ulteriore sistema di raffreddamento a elio liquido. Per rilevare la lunghezza d’onda d’interesse (0,6-5 micrometri), è infatti necessario scendere perlomeno sotto i -223 C°, ma nello specifico parte della strumentazione dovrà permanere a -267 C°. Sotto a tutto questo vi sarà una scatola contenente la circuiteria, l’antenna e il serbatoio del carburante, collegata ai pannelli solari.

Il telescopio verrà mandato a un milione e mezzo di chilometri dalla Terra, verso l’esterno del sistema solare, così da essere un filo più distante dal Sole, ma soprattutto notevolmente più distante dalla Terra stessa che ne riflette i raggi. Si troverà così in un punto di Lagrange, cioè alla distanza giusta per essere attratto in modo equilibrato da due pozzi gravitazionali distinti, quello terrestre e quello solare, così da conservarsi aderente alla nostra orbita planetaria. Dopodiché sonderà le profondità cosmiche, osservando galassie lontane, sistemi solari nascenti e morenti, nebulose protoplanetarie, pianeti distrutti da espansioni stellari o dallo scontro con altri pianeti erranti. Naturalmente, essendo così distante, non potremo aggiornarlo e ripararlo come abbiamo fatto con Hubble, pertanto è improbabile che la sua operatività superi un decennio e non sono concessi errori. Tuttavia, il tipo di dati che otterremo da questo progetto, anche nelle sue prime fasi, potrebbe rivoluzionare la nostra comprensione della realtà.

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