Un po’ di chiarezza sul referendum sulla giustizia

in foto, le quattro schede referendarie – fonte: ANSA

Lo scorso 16 febbraio, contestualmente al rigetto del referendum sulla cannabis e sull’eutanasia legale, la Corte costituzionale dichiarava ammissibile il referendum abrogativo sulla giustizia, che ci vedrà alle urne domenica 12 giugno.

Ma di cosa si tratta?

Partiamo dall’inizio. Un referendum abrogativo, ai sensi dell’articolo 75 della nostra Costituzione, è indetto “per deliberare la abrogazione, totale o parziale, di una legge o di un atto avente valore di legge”. Per passarlo al vaglio della Consulta, è necessario che ne facciano richiesta cinquecentomila elettori o cinque Consigli regionali. Nel nostro caso, il referendum sulla giustizia è stato promosso da ben nove consigli regionali, a differenza di quelli sull’eutanasia legale e sulla cannabis, entrambi di iniziativa popolare.

Il referendum è stato ammesso con cinque quesiti, e vertono tutti sul tema della giustizia.

1. Abrogazione della legge Severino

La legge Severino, del 2012, è una legge in materia di prevenzione e repressione della corruzione. In particolare (e su questo verte il quesito) la normativa vieta la candidatura e l’eleggibilità a qualunque carica pubblica per le persone condannate in via definitiva a più di 2 anni di carcere per reati di corruzione, concussione, collaborazione con la criminalità organizzata o organizzazioni terroristiche e per delitti non colposi con pene dai 4 anni anni in su. Non solo: la legge Severino prevede anche sospensione della carica per 18 mesi in caso di condanne non definitive o la decadenza in caso di condanna definitiva. Se la legge venisse abolita, spetterebbe ai giudici valutare caso per caso (senza che la legge si sostituisca a priori in maniera non arbitraria), ma questo significherebbe che anche i soggetti accusati di reati gravi potrebbero concorrere per le cariche pubbliche, se acconsentito dal giudice.

2. Limitazione delle misure cautelari

Il secondo quesito si concentra invece sulla limitazione delle misure cautelari. Ricordiamo che per “misure cautelari” si intendono tutti quei provvedimenti “emessi nel periodo intercorrente tra l’inizio del procedimento penale e l’emanazione della sentenza”. Il quesito referendario chiede di eliminare la custodia preventiva per i delitti puniti con un massimo di 5 anni di carcerazione o 4 in caso di arresti domiciliari. Se da un lato è vero che in Italia spesso si abusa della misura del carcere preventivo, dall’altro c’è il rischio che, limitando il ricorso alle misure cautelari, si mettano in pericolo i cittadini. Come sottolineato dall’ex magistrato Domenico Gallo, il referendum andrebbe a eliminare “non solo la custodia in carcere e gli arresti domiciliari, ma anche l’allontanamento dalla casa familiare (nel caso del coniuge violento), il divieto di avvicinamento ai luoghi frequentati dalla persona offesa (nel caso di atti persecutori), così come non sarebbero più possibili le misure interdittive, come il divieto temporaneo di esercitare determinate attività imprenditoriali (nel caso delle società finanziarie che truffano gli investitori)”.

3. Separazione delle funzioni dei magistrati

Il terzo quesito verte sulla separazione delle funzioni dei magistrati: in sostanza, a inizio carriera bisognerà scegliere se esercitare come Pubblico Ministero (in parole povere, chi conduce le indagini) o come Giudice, chiamato a pronunciarsi sui fatti e ad emettere la sentenza. Al momento, il “ping pong” da un ruolo all’altro è consentito solo fino ad un massimo di quattro volte ed è soggetto ad alcune regole. Anche in questo caso, il confine è piuttosto sfumato, e bisogna considerare la questione da due punti di vista. È certamente vero che in questo modo si garantisce maggiore imparzialità alla figura del magistrato (ricordiamo che il PM agisce nell’interesse dello Stato, a differenza del giudice che è super partes), ma ha davvero senso bipartire le carriere se formazione, concorso ed organi di governo sono comuni ad entrambe le figure?

4. La valutazione dei magistrati

Il quarto quesito è relativo alla valutazione cui sono soggetti i magistrati ogni quattro anni: questa valutazione è in mano ad una commissione disciplinare a sua volta composta da altri magistrati, professori universitari ed avvocati, ma la valutazione finale spetta unicamente ai magistrati. Il referendum sulla giustizia, invece, mira ad estendere il potere di voto a tutta la commissione disciplinare, e quindi anche ad avvocati e professori. A colpo d’occhio, potrebbe sembrare una soluzione ottimale: effettivamente una valutazione dei magistrati lasciata in mano ad altri magistrati potrebbe risultare poco attendibile e piuttosto di parte, meglio estendere la possibilità di pronunciarsi sul verdetto finale anche ad altri operatori del diritto. Ma siamo così sicuri che sia corretto che un avvocato, una figura “contrapposta” al magistrato nel gioco delle parti, si occupi della sua valutazione? Forse questo non farebbe altro che alimentare dissapori o sentimenti di competizione, col rischio che, in futuro, la decisione del giudice nei confronti proprio di quell’avvocato possa essere negativamente condizionata.

5. La candidatura al Consiglio Superiore della Magistratura

Il CSM, organo di amministrazione della giurisdizione e di garanzia dell’autonomia e dell’indipendenza dei magistrati ordinari, è composto da una parte di membri eletti per un terzo dal Parlamento e per due terzi dai magistrati. Ecco, al momento, per potersi candidare, un aspirante membro deve ricevere le firme di almeno 25 magistrati a supporto della candidatura. Il referendum propone, come quinto ed ultimo quesito, di eliminare il sistema delle firme, per non ingolfare la possibilità di candidarsi. In questo modo si eviterebbero correnti e “raccomandazioni” all’interno della magistratura. Tuttavia, è bene ricordarlo, il CSM svolge un ruolo di governo della magistratura, quindi ha perfettamente senso pretendere che si compia una sorta di selezione naturale tra i candidati, facendo proseguire solo quelli che vantino un certo consenso all’interno della categoria.

Uno strumento probabilmente troppo rigido

Se siete arrivati fin qui, si spera che vi siate schiariti le idee: c’è tempo fino a domenica per valutare tutti gli interessi in gioco e trarre le proprie conclusioni.

Sì o no: una decisione di certo non facile. Questo perché il referendum ammette, per sua natura, solo bianco o nero; manca tutta quella scala di grigi, che forse meglio si addice a questioni tanto delicate, e che solo il potere politico può (o deve?) esercitare. È davvero la scelta migliore delegare al popolo una riforma così di dettaglio?

Ad ogni modo, il referendum offre anche uno strumento diverso, ossia quello dell’astensione: ricordiamo, infatti, che è richiesto il raggiungimento del quorum per ogni quesito, ossia il 50% degli aventi diritto + 1, affinché sia ritenuto valido.

Adesso tocca quindi agli italiani: tessera elettorale e documento d’identità alla mano, ci si vede alle urne – o forse no?

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