I dati personali nell’era della giustizia telematica

Il progresso tecnologico ha portato con sé anche importanti innovazioni nell’ambito della giustizia e della sua amministrazione: tra queste, nel 2014, le sentenze della Corte di Cassazione sono divenute consultabili online, non solo dagli “addetti ai lavori”, ma anche da tutti gli utenti del web.

I dubbi dell’Autorità Garante per la Protezione dei Dati Personali

Dopotutto, la sentenza “è emessa nel nome del popolo; come nel nome del popolo – recita l’art. 101 della Costituzione – è amministrata la giustizia. Ed è pubblica perché conclude un processo la cui “pubblicità” si è storicamente affermata in funzione di garanzia del cittadino, rispetto alla tradizionale segretezza (e quindi insindacabilità) del potere esercitato con l’istruttoria giudiziale. In un senso diverso, la sentenza (quella di legittimità soprattutto) è pubblica perché afferma dei principi che costituiscono un patrimonio giuridico collettivo, cui ciascuno deve poter attingere”. Si esprimeva in questi termini, quasi dieci anni fa, Antonello Soro, l’allora Presidente dell’Autorità Garante per la Protezione dei Dati Personali, che esprimeva le proprie perplessità in merito ad una efficace tutela della riservatezza di tutti i soggetti coinvolti in una sentenza che sarebbe stata resa pubblica.

“Ma ciò vuol dire che chiunque ha il diritto di conoscere a chi appartiene tutto lo spaccato di vita che emerge, in ogni dettaglio, da una sentenza, civile, penale o amministrativa che sia? La pubblicità della sentenza equivale a mettere a nudo, con nomi e cognomi, le ragioni di un divorzio; l’infermità che determini una pronuncia d’interdizione; il danno esistenziale subito dalla vittima di un grave reato; il desiderio di una morte “dignitosa” che spinga il paziente in fase terminale a rifiutare le cure salvavita; l’asperità di un conflitto che induca il lavoratore a convenire in giudizio il suo datore di lavoro?”.

Da un lato, quindi, la pubblicità di un processo, “per consentire il doveroso controllo su di un potere esercitato nel nome del popolo”; dall’altro, il diritto alla riservatezza.

La Corte di Cassazione oggi

Un tema che è restato vivo nel corso degli anni e che ha interessato la giurisprudenza da vicino, che si è trovata ad operare la necessaria compensazione caso per caso: così è stato fatto pochi mesi fa, con la sentenza numero 47126 della Corte di Cassazione, Sezione Penale I, pubblicata il 24 dicembre 2021.

Sorvolando sul merito della vicenda che in questa sede non rileva, il ricorrente richiedeva alla Suprema Corte, tra le altre cose, che venisse apposta a cura della Cancelleria, sull’originale della sentenza o del provvedimento, l’annotazione di cui all’articolo 52 del D.Lgs. n. 196 del 2013 (ossia, il nuovo Codice Privacy), “volta a precludere, in caso di riproduzione della sentenza o provvedimento in qualsiasi forma, l’indicazione delle generalità e di altri dati identificativi del medesimo interessato riportati sulla sentenza o provvedimento”.

Tale annotazione, tuttavia, può essere apposta (non solo su istanza di parte, ma anche d’ufficio) solo a condizione che sussistano “motivi legittimi”. Sul punto, la Corte si esprimeva richiamando una precedente sentenza in materia (la numero 11959 del 15 febbraio 2017), ritenendo che “l’espressione «motivi legittimi» debba essere intesa come sinonimo di «motivi opportuni»”, un’espressione volutamente molto generica, e che “l’accoglimento della richiesta medesima potrà intervenire ogniqualvolta l’Autorità Giudiziaria ravviserà un equilibrato bilanciamento tra esigenze di riservatezza del singolo e pubblicità della sentenza”.

L’equilibrato bilanciamento

Ma quali criteri vanno considerati per operare questo “equilibrato bilanciamento”? Sul tema, si è pronunciato il Garante già a fine 2010, affermando che è necessario fare riferimento alla “particolare natura dei dati contenuti nel provvedimento” (quali, ad esempio, i dati personali idonei a rivelare lo stato di salute e la vita sessuale o le convinzioni religiose, filosofiche o di altro genere) oppure alla “delicatezza della vicenda oggetto del giudizio”, da valutare in relazione alle “negative conseguenze sui vari aspetti della vita sociale e di relazione dell’interessato”.

 

Nel nostro caso, tuttavia, la Corte ha ritenuto che non venissero coinvolti, né tantomeno messi a repentaglio, i dati “sensibili” del ricorrente, né che la situazione integrasse i profili di una vicenda a cui rivolgere particolari cautele in virtù della sua “delicatezza”, ragione per cui il ricorso è stato respinto.

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