La recensione del film “Anselm” di Wim Wenders

“La morte è un maestro di Germania”, come scrisse Paul Celan nella sua poesia Fuga di morte. E se la morte è maestro di Germania, allora l’artista Anselm Kiefer ne è stato il suo più mirabile allievo.

Tutto è morto nelle opere di Kiefer, e Wim Wenders, nel suo ultimo documentario Anselm, ci mostra proprio questo, e lo fa addirittura in 3D per rendere meglio l’idea. Anselm è un bambino nato nel 1945, cresciuto tra le rovine della Seconda guerra mondiale. Anselm è un ragazzo che ha fatto i conti con il passato nazista della sua terra per tutta la vita. Uno che nel ’69 se ne andava in giro a “occupare” la Germania e l’Italia facendosi “selfie” in bianco e nero con il braccio destro alzato per impedire alla gente di dimenticare, di parlare d’altro, solo di altro. E allora eccolo lì, il giovane Anselm, immortalato in quei “Sieg Heil” che portarono stupidamente i critici e i giornalisti a chiedergli soltanto: “Ma lei è antifascista?” E sapete cosa rispondeva Anselm?

“Dirsi oggi antifascisti è un insulto per i veri antifascisti del passato”.

Anselm, il bambino e poi il ragazzino curioso (il primo interpretato nel film dal figlio di Wenders e il secondo dal nipote di Kiefer) che legge, guarda, disegna, e che si aggira nei campi sterminati di neve e girasoli della Germania, negli antichi e sfarzosi palazzi dove la zia faceva le pulizie, negli immensi studi dell’adulto Kiefer, come quello di Barjac, in Francia (oggi Fondazione La Ribaute, studio museum aperto al pubblico), o nelle sale di Palazzo Ducale a Venezia, sede di una delle sue ultime mostre monumentali.

 

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