Lo sforzo ha un senso. Ma non sempre

Fondatore di Cicli&Mercati ci segnala questo interessante post di “Ho riletto questo post che avevo già commentato… “ dice “Ma l’ho trovato davvero denso e carico e secondo me trasversale rispetto a molte situazioni. Per questo oggi lo riposto. Le cose che dice sull’impegno, dove parla dell’impegno sul lavoro, possono essere facilmente traslate a molti altri campi. È c’è una frase secondo me potentissima… Cercatela!”

Lo sforzo ha un senso. Ma non sempre.

Per anni ho creduto e a tratti lo credo ancora che tutto dipendesse da me.
Vengo da una cultura dove lo sforzo non era un valore. Era un dovere.
E quando ho iniziato a lavorare negli anni ’90, l’idea che “se vuoi, puoi” mi sembrava naturale.

Carnagie, Mandino, Tracy, Robbins, Covey… per dirne alcuni.
Mi davano una cosa semplice e potente: una direzione.
E in certe fasi della vita, una direzione è già una forma di salvezza.

E qualcosa ha funzionato.
Mi sono formato. Ho costruito, cambiato, aiutato.

Poi, col tempo, ho iniziato a vedere le crepe.

Persone capaci che affondano.
Giovani motivatissimi che si bruciano.
Colleghi che lottano come leoni ma non ottengono nulla.

E non per mancanza di sforzo.

Allora ho cominciato a chiedermi:
ma lo sforzo ha senso sempre?
Oppure ci sono momenti in cui insistere è solo un modo per consumarsi?

Byung-Chul Han ha scritto che oggi ci auto-sfruttiamo nel nome della libertà.
Mark Fisher ha parlato di un mondo dove chi fallisce si sente colpevole, anche quando il problema è fuori.
Benasayag invita a distinguere tra funzionare e vivere.

Eppure, nessuno di loro dice: non fare niente.
Dicono solo: scegli bene per cosa vale la pena faticare.

Anche la scienza sembra confermarlo.
Seligman parlava di impotenza appresa: smetti di provarci non perché sei pigro, ma perché hai capito che non serve.
Bandura spiegava che ci impegniamo solo se percepiamo che possiamo davvero incidere.
Anche gli animali, quando capiscono che non ce la faranno, si fermano.

Non sto dicendo che lo sforzo sia una bugia.
Sto dicendo che non è sempre la risposta giusta.

I libri motivazionali hanno aiutato milioni di persone.
Ma in un mondo che vede i meccanismi della competizione sfasati e spesso taroccati la vera sfida è capire quando ha senso provarci, e quando invece no.

Lo sforzo ha bisogno di tre cose:
un “perché”,
un “per chi”,
e almeno un barlume di possibilità.

Lo sforzo non è da buttare via.
È parte della nostra specie, della nostra storia, delle cose buone che sono arrivate al mondo.

Ma se non lo sappiamo distinguere, se lo trattiamo sempre e solo come una virtù in sé, rischiamo di consegnarci a un sistema più furbo di noi.
Un sistema che sa premiare l’energia, ma la vuole cieca.
Che ti dice di insistere, anche quando sei in un vicolo che non porta da nessuna parte.
Che ti fa sentire colpevole se ti fermi.
E complice se vai avanti a testa bassa.

Oggi credo che l’abilità più rara non sia la motivazione ma sia la lucidità.
Sapere per cosa si fatica.
Sapere quando si sta inseguendo un’idea di successo costruita da altri.
E quando invece si sta partecipando a qualcosa che ha senso, che migliora te, gli altri, e magari anche il pezzo di mondo in cui vivi.

Non è un equilibrio.
È una vigilanza gentile, ma costante.
E una forma di rispetto per sé stessi, per la fatica, per le conquiste vere

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