True Detective 1: una riflessione a dieci anni dall’uscita di un capolavoro

In queste noiose serate estive, dove in questo Paese sembra che tutto debba obbligatoriamente fermarsi per tre mesi nella vita e in tv, manco fossimo ancora a scuola, mi sono rivista la prima stagione di True Detective, l’unica e ineguagliabile. E mentre cercavo delle informazioni sullo sceneggiatore Nic Pizzolatto, ho scoperto che l’ho fatto proprio nel 2024, a dieci anni esatti dall’uscita della prima stagione con Matthew McConaughey (Rustin Cohle) e Woody Harrelson (Martin Hart), che per me e per molti altri sarà sempre prima di tutto l’indimenticabile Mickey Knox di Natural Born Killers.

Qualcuno ha osato scrivere che True Detective è la Divina Commedia delle serie tv. A voi l’ardua sentenza. Non starò qui a raccontarvi la trama o a dirvi perché molto probabilmente è così. Io voglio dirvi soltanto perché True Detective, oggi più che mai, è una serie necessaria.

Viviamo in un’epoca ormai insopportabilmente edulcorata di ogni male. Si vuole far credere che un giorno sarà possibile vivere in un mondo (una piccola parte del mondo) favoloso, pulito, dove tutti saranno uguali e la penseranno allo stesso modo. Dove ci si vorrà tutti bene. Un mondo senza invidia, privo di rabbia, dove spariranno le disuguaglianze, le ingiustizie.

Il problema è che tutti sembrano dimenticarsi che siamo solo maledettamente umani. E True Detective ce lo ricorda. Ci ricorda che esistono anche il male, il malessere, la malvagità. E l’esistenza del male è un qualcosa che va ricordato e scolpito nella pietra. Il male esiste ed è dentro ognuno di noi, nessuno escluso, e non se ne andrà.

Stiamo cercando di nascondere il lato oscuro, ancor più della morte. Non ne parliamo, non lo trattiamo, non lo maneggiamo. Non ne scriviamo. Non abbastanza. E non parlo delle notizie truci che leggiamo sui giornali, quella cronaca becera degna dei peggiori avvoltoi. Parlo di una vera e sincera riflessione sul male. Parlo della necessità di non sentirsi fuori posto se si provano emozioni contrastanti, se si hanno pensieri disturbanti e “cattivi” secondo la morale. Che poi, che cos’è la morale se non il controllo dei propri desideri? Ma è davvero un bene sopprimere tutte le passioni? Controllarle pedissequamente? E che cos’è la morale, oggi? E da chi è imposta?

True Detective è un grande omaggio a Nietzsche e al suo Eterno ritorno. Quell’incubo che ci perseguita: l’idea di dover rivivere in eterno sempre la stessa dannata vita. Morire, rinascere, e fare sempre la stessa cosa per un’infinità di volte. In eterno. Rustin Cohle è un poliziotto disilluso, dice di credere che la coscienza umana è un tragico passo falso dell’evoluzione:

“Siamo troppo consapevoli di noi stessi. La natura ha creato un aspetto della natura separato da sé stessa. Siamo creature che non dovrebbero esistere per le leggi della natura. Siamo delle cose che si affannano nell’illusione di avere una coscienza. Questo incremento della reattività e delle esperienze sensoriali è programmato per darci l’assicurazione che ognuno di noi è importante. Quando invece siamo tutti insignificanti. Credo che la cosa più onorevole per la nostra specie sia rifiutare la programmazione. Smetterla di riprodurci, procedere mano nella mano verso l’estinzione. Un’ultima mezzanotte, in cui fratelli e sorelle rinunciano a un trattamento iniquo”.

Rust considera la religione roba per beoti. Perché non bisognerebbe avere qualcuno, dall’alto, pronto a castigarti, per riuscire a non fare del male. Dice di averla vista la pace, ma solo negli occhi di coloro che si stavano lasciando andare nel momento in cui morivano:

“Li guardi negli occhi, anche in una foto, non ha importanza se siano vivi o morti, puoi comunque leggerli, e sai cosa capisci? Che loro l’hanno accolta. Non subito ma proprio lì, all’ultimo istante, un sollievo inequivocabile. Certo, erano spaventati, e poi hanno visto per la prima volta quanto fosse facile lasciarsi andare. L’hanno visto in quell’ultimo nanosecondo. Hanno visto quello che erano, che noi, ognuno di noi, in tutto questo grande dramma, non siamo mai stati altro che un cumulo di presunzione e ottusa volontà e allora puoi lasciarti andare, alla fine non devi aggrapparti così forte per capire che tutta la tua vita, tutto il tuo amore, il tuo odio, la tua memoria, il tuo dolore, erano la stessa cosa, erano semplicemente un sogno, un sogno che si è svolto in una stanza sprangata, e grazie al quale hai pensato di essere una persona. E come in molti sogni, c’è un mostro che ti attende alla fine”.

Rust ha visto morire sua figlia piccola. Ha visto finire il suo matrimonio per questo. Ma si sente libero dal peccato di essere padre. Libero da quel fardello. Libero dalla colpa di dover far sopportare a una creatura il peso di stare al mondo, in questa gabbia, in questa immensa cloaca. Un figlio si pensa che sia una risposta a qualcosa, ma non lo è.

Rust è quello che si potrebbe definire un pessimista, un nichilista, oppure, un mistico.

Il teologo Henri-Marie de Lubac conclude il suo libro Mistica e misticismo cristiano con un allettante capitolo: Nietzsche mistico. Nel 1881, Nietzsche partì da Recoaro, in Veneto, salì nell’Alta Engadina, a Sils Maria, costeggiò il lago di Silvaplana, sostò presso la roccia di Surlej, ed ebbe un’illuminazione. Queste le sue parole, tratte da Ecce homo:

“Qualcosa che, subitanea, con indicibile sicurezza e sottigliezza, si fa visibile, udibile, qualcosa che ci scuote e sconvolge nel più profondo, è una semplice descrizione dell’evidenza di fatto. Si ode, non si cerca; si prende, non si domanda da chi ci sia dato; un pensiero brilla come un lampo, con necessità, senza esitazioni nella forma – io non ho mai avuto scelta. Un rapimento, la cui enorme tensione si scarica talvolta in un torrente di lacrime; che ora fa precipitare inconsapevolmente il passo, ora lo rallenta; un totale essere fuori di sé con la coscienza più precisa di innumerevoli brividi e correnti fino alla punta dei piedi; un abisso di felicità dove ciò che è più doloroso e cupo non ha più effetto di contrasto, ma di colore necessario, voluto, provocato, in mezzo a una tale sovrabbondanza di luce… tutto avviene in modo involontario al massimo grado, ma come in un turbine di senso di libertà, di incondizionatezza, di potenza, di divinità… Questa è la mia esperienza della ispirazione…”.

Nietzsche era considerato il solitario dei solitari, un uomo al di là di tutto, che non aveva più legami con i vivi, il cui pensiero “dividerà in due la storia dell’umanità”. I senza Dio da un lato e quelli che ce l’hanno dall’altro. E Rust è una sorta d’incarnazione di Nietzsche. Un solitario, impossibilitato a trovare qualcuno che lo comprenda, un senza Dio, uno che ha smesso di cercare un equilibrio perché ha capito che la vita è nient’altro che un cerchio piatto.

 

 

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