Teatro Studio Frigia Cinque. “Confessioni”. Messaggio provocatorio

Teatro Studio Frigia Cinque. “Confessioni”

Alessandra Basile, Santino Preti, Stefano Narsini. Regia di Stefano Fiorentino

Quanto sono importanti i piccoli teatri nelle città italiane?

Se guardassimo a realtà come New York, verrebbe istintivo rispondere “Molto”. Dal punto di vista meramente economico, i teatri cosiddetti minori all’esterno del perimetro di Broadway, i teatri “off”, generano 584 milioni di dollari al botteghino, anche se il numero di attori che vi recitano senza remunerazione è ancora molto alto. Hanno un’enorme influenza culturale, spesso mettono in scena lavori controcorrente e sono in grado di raggiungere un pubblico più ampio e più giovane grazie a biglietti più convenienti.

“Tradizionalmente le persone vedono questo come un settore di nicchia, ma abbiamo scoperto che contribuisce in modo significativo a soddisfare gli interessi di un’importante fetta di cittadini di New York, e anche un importante motore economico”, ha affermato recentemente Anne del Castillo, funzionario della municipalità.

Teatro Studio Frigia Cinque

Il caso milanese del Teatro Studio Frigia Cinque si inserisce a pieno diritto nel quadro d’insieme della cultura innovativa e dirompente che caratterizza chi in qualche modo si ispira all’Actor Studio e al metodo inventato dal regista russo Konstantin Stanislavskij.

Aperto nell’aprile 2006, il Teatro Studio Frigia Cinque era prima uno spazio industriale: ora è un luogo dedicato alla cultura con un’Accademia di danza classica e una scuola di canto e musica. La notizia di ‘Confessioni’ ha spinto la direzione artistica del Fringe Festival Off (https://milanooff.com/), che si svolgerà a Milano nel settembre 2022, a volere fortemente il Frigia fra i suoi teatri ospitanti. Giustamente.

Teatro Studio Frigia Cinque. “Confessioni”

Lo spettacolo si compone di tre parti distinte; sono tre storie indipendenti unite da un fil rouge che si identifica con un messaggio provocatorio alla società: l’apparenza (anche lussuosa) inganna e il male è ordinario, traversale, persino banale.

Nella prima parte, un monologo, una donna incarcerata confessa – seduta a un tavolo e davanti a uno specchio, al di là del quale chi di dovere la ascolta e registra, nella piccola stanza buia di una stazione di polizia – un reato efferato da lei commesso molti anni prima, per il quale si trova lì. Ciò che verrà fuori, però, dalla sua esposizione – a tratti dura, a tratti commossa, supportata da una capacità oratoria appresa grazie alla sua attitudine allo studio e all’interesse alla scuola, specie per alcune materie – è ancora più drammatico e sconvolgente. In particolare, il vero driver di tutta la sua vita, dai suoi 13 anni fino al momento stesso in cui racconta la sua versione, pur confermando di avere commesso il delitto per cui è già rinchiusa, è il suo amore mai spento per il prof di arte e scienza. Non c’è un nome, lui è solo il prof. Dunque, la domanda è: chi è il vero assassino di Billie, il ragazzino di 14 anni figlio della detenuta e, come lei stessa in questa situazione rivela, del prof? Di fatto lei, naturalmente, ma è davvero l’unica colpevole? E, soprattutto, perché l’ha fatto? Forse per amore e vendetta. Ciò che il pubblico si porta a casa è un dubbio: è una donna che ha ucciso senza pietà, stile assassina fredda o in preda a un tragico momento di follia, oppure è un’ex ragazzina innamorata, illusa e tradita, che, a sua volta, ha subito un reato terribile, nella più grande solitudine, ed un successivo abbandono proprio da chi per lei era un eroe ed un grande amore? I dubbi aprono cuore e mente e fanno parte degli esseri umani, spesso più fragili che cattivi.

Nella seconda parte, un monologo, un uomo, che si trova in un bar, un locale, di sera, ne vede un altro e decide di aprirsi con lui, un perfetto sconosciuto. Decide di raccontare qualcosa che non dirà più a nessun altro. Un reato agghiacciante è ciò che il protagonista di questa storia, triste e occulta, condivide con il suo uditore inconsapevole, un altro uomo stante nel locale che, forse, vorrebbe farsi i fatti suoi, invece lo ascolta. Il reo non confesso, fra una bevuta e l’altra, narra di sua moglie Deb (Debora) e della loro figlioletta di pochi mesi, facendo poi cenno alla sua attività lavorativa in un ufficio e, anche, a un programma in tv come La ruota della fortuna, noto a tutti. Insomma, presenta, con sufficiente leggerezza e tranquillità, un quadro famigliare e sociale comune e, tutto sommato, allegro. Nel corso della storia, però, i risvolti noir prendono piede e il terrificante delitto di cui si dichiara autore davanti a quello sconosciuto viene svelato, per la prima e unica volta. Per una serie di eventi e circostanze, l’uomo confida che la verità, quella che sta raccontando ora, non fu mai scoperta, né dalla polizia che indagò né dalla moglie, lontanissima dal potere anche solo immaginarlo un assassino tanto impietoso. Uno degli aspetti peggiori della vicenda è dato dal fatto che l’uomo racconta di avere commesso il delitto per tutelarsi da un evento drammatico pronosticatogli da un collega, scoprendo, poi, che si era trattato di uno stupido scherzo. Ma l’uomo è pentito a distanza di anni? No. Gli eventi l’hanno salvato e svelarsi al mondo avrebbe danneggiato lui e Deb.

Nella terza parte, una scena, un uomo e una donna raccontano, a una festa di amici, la loro love story e, in particolare, una serata, quella del loro sesto anniversario, accaduto anni e anni prima. La scena non è proprio uno scambio fra i due, come la si intenderebbe tradizionalmente: i due occupano il palco come fosse diviso a metà e si rivolgono a qualcuno che sta loro di fronte, un gruppo di amici lui e un gruppo di amiche lei, raccontando la propria versione, due versioni differenti, di quella serata. Se per lei il ricordo è rosa e fiori, come il bouquet che John le aveva regalato, a quel tempo, per i sei anni insieme e per andare a una bella festa all’hotel Plaza di NYC, per lui, oltre all’amore romantico e dichiarato per Sue, quel weekend fuori città (dal Massachusetts) si era tinto di rosso, rosso sangue, per avere ucciso, insieme agli amici di sempre, Tim e David, un omosessuale; un vero e proprio atto di omofobia. Si percepisce dal testo che John stesso è un probabile criptogay: non è insolita la proiezione su altri, vittime innocenti, della propria rabbia montata da un profondo disagio personale, alimentato da ricorrenti pregiudizi sociali e religiosi, dannosi e infondati. John e Sue sono due persone all’apparenza posh, eleganti, abituate al lusso, forse ai vizi, fin da giovani; sono una coppia bella, istruita nelle migliori scuole e università, che frequenta diversi gruppi di Mormoni, va in Chiesa e fa beneficienza regolarmente, ma nella sostanza i due nascondono ben altro. Sue ha sempre voluto ciò che socialmente l’avrebbe premiata, come il ragazzo innamorato, gli amici di un certo giro, i bei vestiti, tipo quello nero di taffetà di cui parla, la bella macchina e un tenore di vita alto, e, soprattutto, il matrimonio, con una preferenza per quello autunnale; ha avuto tutto, in apparenza, ma è inclusa la vera felicità? Agli amici fa credere di sì. John ha sempre amato la competizione con gli altri ragazzi, specie quanto a macchine e donne; ha sempre optato solo per gente del giro stretto e si è innamorato di Sue, come rispecchiamento del suo ideale femminile; con lei ha frequentato il lussuoso Boston College e condotto una vita fortunata in termini di possibilità e disponibilità; però, ha scatenato l’inferno, quando ha massacrato un uomo perché gay con botte e pugni. Nemmeno in questa terza parte di Confessioni vi è pentimento: il racconto di John alla festa è vivace, divertito, esaltato. Quello di Sue, invece, è sognante, frizzante e resta un po’ in superficie. Lui cela, dunque, un terribile segreto e lei non sa nulla: è proprio così? La decisione sta al pubblico. Lei è veramente felice con lui? E lui con lei? Il loro è poi stato un valido matrimonio? L’apparenza quanto conta per Sue e John e fino a che punto? L’anello al dito di Sue è un regalo del suo John che la fa sentire felice: lui l’ha preso dal dito della sua vittima.

Alessandra Basile

Cara Alessandra, veramente la tua interpretazione mi ha coinvolto in modo particolare per la sua l’intensità: ho sofferto per l’ingenuità della piccola studentessa e per l’epilogo raccapricciante della vicenda. Quale serie di coincidenze ti ha portato a recitare il tuo straordinario monologo?

“Santino Preti mi ha chiamata memore dei miei spettacoli fatti proprio lì nel 2014 e nel 2015. Dopo un casting, mi ha confermata: dicembre 2021. Il vero lavoro è iniziato quando il regista Stefano Fiorentino è arrivato, ossia intorno al 10 gennaio. Da lì tre volte a settimana provavamo. Una gran bella soddisfazione per noi, il teatro di stile off-off-off-off Broadway, che io definisco cozy, sempre pieno per quattro repliche, che speriamo proseguire anche su altri palchi, e un team artistico, quello così creato, che è stato un successo in termini di rapporti professionali e umani. Ci vogliamo bene. E vogliamo ancora lavorare assieme. Anzi ci sarebbero già un paio di proposte, ne sono onorata”.

Santino Preti, Stefano Narsini, Stefano Fiorentino

Santino Preti, interprete del secondo monologo, è il direttore artistico del Teatro Studio Frigia Cinque, insieme al regista dello spettacolo, Stefano Fiorentino, attore di talento, scrittore di fantasia e di grande sensibilità, regista dotto e insegnante di ispirazione, come lo descrive il sito qualitymilan.com

Il rapporto che Santino Preti riesce a creare con il pubblico, complice anche l’intimità che si crea all’interno del minuscolo teatro Frigia Cinque, è straordinario. Il suo monologo cattura in pochi istanti chi gli sta davanti, e allo spettatore sembra di passare da un monologo a un dialogo, come se la scena si svolgesse proprio fra l’attore e lui stesso, in veste di tacito interlocutore. Una partecipazione empatica raramente provata in altre platee.

Stefano Narsini si presenta al pubblico con grande naturalezza e simpatia: la scena e lo scambio di battute con Alessandra Basile creano immediatamente una sensazione di accettazione e condivisione degli aspetti più “mondani” della vita dei due protagonisti, raccontati con scioltezza e grande dose di empatia. Con grande abilità nel trascinare poi lo spettatore nel tragico epilogo della vicenda grazie a una recitazione capace di far sembrare ovvia la follia criminale.

La regia di Stefano Fiorentino corre impeccabilmente minimale a valorizzare la sensazione di straniamento dei testi e la dissociazione della psiche dei personaggi. Citerei due parole del regista “Il teatro rappresenta una educazione alla vita, mi ricorda di smarrirmi per ritrovarmi” che aggiunge “confrontarsi con gli attori è l’unico modo per apprezzarsi più profondamente, anche come esseri umani”.

Link utili

https://www.upmanagement.it/santino-preti
https://unionitalia.org/membri/stefanofiorentino/
https://it.e-talenta.eu/members/profile/alessandra-basile

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